sabato, marzo 08, 2008

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lunedì, marzo 03, 2008

Panoramio - Foto preferite

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martedì, aprile 03, 2007

SU TRIGU DE COLLARI

Anche di questo breve racconto in limba per chi non avesse dimestichezza con il sardo nella variante abbasantaese potrà leggere in coda la traduzione in italiano.
Il titolo ‘Su trigu de Collari’ in italiano,: “Il grano di Collari” è il proseguimento del racconto ‘Sa pinna ‘e ferru de Fattu ‘ene’.
Dopo l’aratura e la semina, ecco la trebbiatura; un altro momento che oramai fa parte dei ricordi dell’infanzia.
Raffaele ha saputo, anche in questa storia, far rivivere quei momenti.Oltre raccontare con precisione le varie fasi della trebbiatura, descrivendo tutte le operazioni inerenti alla falciatura, dalla ricerca del giunco o “s’ispedazzu”, (quest’ultimo è un’erba che cresce spontanea lungo i nostri ruscelli, di cui al momento mi sfugge il suo nome scientifico), che sostituiva il giunco nella legatura delle manate di spighe; alle operazioni successive nell’aia dove si trebbiava. Non mancano i riferimenti a ciò che si usava mangiare in tali occasioni o gli inconvenienti del trasporto come l’episodio del chiavistello della ruota, o il pericolo costante degli incendi.
Traduzione in italiano del
2° RACCONTO SCRITTO DA RAFFAELE ARCA -ABBASANTA
PER IL 1° CONCORSO LETTERARIO "S'ARINZU"- GHILARZA
DEL 15/X/2000 - SEZIONE ADULTI – PROSA

SU TRIGU DE COLLARI
(Il grano di Collari)
La trebbiatura dell’orzo e dell’avena era già finita e fu un raccolto abbondante.
Giovanni Angioni con Daniele suo fratello, avevano deciso di incominciare la mietitura del grano di Collari, il giorno dopo la festa di San Giovanni.
L’estate era veramente arrivata, perché il caldo si faceva sentire tanto.
Giuseppe Lai, il servo, forse la mattina non sarebbe venuto, perché era sua consuetudine per le feste maggiori ( e San Giovanni era una di quelle) prendersi una bell’ubriacatura. Anche Salvatore, il figlio di Giovanni, doveva andare alla mietitura, perché le scuole erano finite. Il giorno che iniziarono a mietere, di primo pomeriggio, si levò un vento caldo che dava fastidio, quando all’improvviso si vide del fumo verso Mesu enas.
“Guarda Giovanni”, fece Daniele, “quel fuoco pare sia nella zona di pascolo di Francescangelo Contini. Diavolo, ha il grano pronto da mietere”. I due fratelli lasciarono subito la mietitura, e prese le roncole, andarono di corsa nella direzione del fuoco. Arrivati nei terreni di Francescangelo Contini, trovarono le pecore rinchiuse nel recinto e il fuoco che le lambiva.
Liberate le pecore e portate al chiuso del ruscello, tornarono subito nuovamente al campo del grano, dove il fuoco era già entrato e aveva bruciato una decina di metri del cereale. Con le roncole tagliarono un paio di fronde di quercia e si misero a spegnere il fuoco.
Dopo breve tempo arrivarono Francescangelo Contini e Pietro Pinna, il suo vicino. Dopo un altro po’ di tempo arrivò Giuseppe Lai, ritornando dal suo paese. Tutti e cinque, battendo con forza, riuscirono a spegnere l’incendio.
“Quando ci si mette di mezzo il diavolo!.Il somaro s’è imbizzarrito dietro la somara in calore di Nicola Careddu, e ho dovuto rincorrerlo fino a Brunellu.
Devo ringraziare Dio che siete venuti voi, altrimenti quest’anno avrei perso tutto il grano. E ringraziare tanto le mani rattrappite che hanno appiccato il fuoco” disse quasi tranquillo, Francescangelo.
“Vuol dire che doveva andare così, ma dimmi Francescangelo, chi può essere quello che ha fatto questa bell’opera?”, domandò Daniele.
“Lo sa l’anima porca sua. Ma prima o poi verrà a galla”, replicò Francescangelo.
Il fumo e le fiamme del fuoco avevano stremato tanto Giovanni e Daniele che decisero di non proseguire la mietitura, per quella sera.
L’indomani mattina, verso le dieci arrivò Salvatore, scusandosi per non essere andato il giorno precedente.
“Avanti, Salvatore giacché il grano sta inaridendosi da presto, vai al ruscello e porta un fascio di giunchi, che ci serve per legare le manate di grano. Se vedi che il giunco non è sufficiente, porta un po’ di ‘ispedazzu’”.
A quell’ordine del padre, Salvatore, contento di aiutare, andò di corsa al ruscello e ritornò in fretta con un bel fascio di giunchi.
“Babbo, posso falciare pure io?”, domandò Salvatore.
“Beh, prima di iniziare a falciare, metti a rammollire un fascio di grano, per legare i covoni. Strappalo così dalle radici, mettilo all’ombra di quella grande quercia e versaci sopra l’acqua che sta nelle brocche del latte”.
Così replicò Giovanni a suo figlio, facendogli vedere come doveva fare.
La giornata trascorse veloce e all’imbrunire, non si sentivano molto stanchi.
L’indomani mattina, alla mietitura, con Salvatore venne Lorenza, la figlia maggiore di Daniele, che aveva quindici anni, ed entrambi diedero una buona mano d’aiuto, per la loro età. La notte fu una bella notte di luna, e dopo cena,
Giovanni, Daniele e Giuseppe, ripresero a falciare fino all’una di notte.
Il tre di Luglio, il grano di Collari fu tutto mietuto e Giovanni, aiutato da
Giuseppe e Salvatore, caricò il carro.
Dopo, Giovanni e Salvatore, dietro al giogo dei buoi, partirono per il paese.
Arrivati alla discesa di Sa Tanchitta, dopo ripetuti sobbalzi, stava per balzare via il chiavistello della ruota di sinistra, del carro.
“Babbo, babbo, arresta i buoi, altrimenti salta il chiavistello della ruota”, urlò Salvatore, che si accorse della cosa. Fermati i buoi, Giovanni, dopo aver messo un sasso davanti alle ruote, e dopo aver dato istruzioni a Salvatore, facendo forza con la schiena e con le braccia sulla struttura del carro, riuscì a rimettere a posto il chiavistello
Quando la storia della ruota si seppe in paese, la fama di Giovanni, uomo forte, crebbe ancora, e tanti lo citavano a menzione
Dal chiuso di Collari si produssero sette carri di grano. Quattro gli trasportò Giovanni con il suo giogo e tre Daniele con il suo.
Il grano l’ammucchiarono nello stazzo di Pardu ‘e Funtana Noa.
Doveva andare ad aiutarli, Antonio Carta il cognato, con il suo giogo.
Nel prato, poiché gli stazzi erano tanti, era un via vai continuo di carri carichi di grano da trebbiare, di carri carichi di grano già trebbiato, di carri vuoti che riandavano a caricare. E altri carri erano fermi nelle aie dove si trebbiava. Chi raccoglieva il grano già ventilato e chi trebbiava. E poi, era un andirivieni di bambini che giocavano a nascondino in mezzo ai mucchi del grano. Altri seguivano i buoi che trebbiavano, o salivano e scendevano dalle tregge in pietra.
Giovanni e Daniele dopo aver trebbiato il loro grano, dovevano trebbiare il grano di Francescangelo Contini, perché non aveva il giogo.
Loro stessi gli fecero l’aratura, perché andavano d’accordo e Francescangelo gli aveva reso il debito con giornate di zappatura.
Poiché l’aia dove si trebbiava era vicina al paese, andavano a turno a pranzare in casa.
Tutti i giorni, dopo pranzo, Lorenza portava un abbondante zuppiera di cagliato fresco di latte, che rinvigoriva i lavoratori.
In un momento di pausa mentre mangiavano il cagliato, Daniele chiese a Francescangelo: “ Dimmi, hai poi saputo chi mise il fuoco nella tua zona di pascolo?”
“ Di ciò non devo accusare nessuno, poiché fui io stesso a causarmi il danno. Poiché quando stetti per giungere all’ovile, il mio asino alla vista dell’asina in calore di Nicola Careddu, s’imbizzarrì facendomi faticare, e nel trambusto mi cadde dalla bocca il sigaro acceso, che poi fece il danno ”
“ Bah, meglio così, vuol dire quindi che non hai persone che ti vogliono male”, replico Giovanni.
Il pomeriggio dell’otto di Luglio, sabato, non si poté ventilare perché il vento era inesistente, e quindi Giovanni la notte, rimase a dormire nello stazzo.
Verso le tre di notte, addormentato affianco al carro, ma con sonno leggero, lo svegliò un rumore sospetto. Vide un uomo che rubava del grano dal mucchio, mettendolo in una bisaccia.
Avvicinatosi lentamente all’uomo e afferratolo per il gilè, e riconoscendolo, Giovanni gli disse “ Mah dimmi Antonio Porcu, passi che hai otto figli e ne hai necessità, ma una volta rubi delle fascine di legna dal recinto delle pecore, un’altra volta rubi bisacce d’uva dalla vigna, e un’altra volta rubi pomodori, melanzane, zucchine e cetrioli dall’orto, e stai sempre rovistando le nasse nel ruscello; ma quando finirai di rubare e andrai a lavorare, invece di vagabondare per le bettole. Domani vieni a ventilare, se non hai altro da fare”
Antonio Porcu, dopo aver svuotato la bisaccia, se ne andò con la coda tra le gambe, e il giorno seguente andò a ventilare.
L’indomani si alzò un bel vento e tutti ventilarono: grandi e piccini, uomini e donne.
Era un’avvicendarsi di ventilabri e forconi di legno che si alzavano e si abbassavano.
“ Beh, ragazzi, domani ci riposeremo perché il raccolto è finito e siccome
è la festa di San Palmerio dobbiamo andare a Ghilarza a casa di mio suocero per festeggiare. Ed anche voi, perché non venite alla festa. Domani notte poi, ci saranno i fuochi d’artificio”.
Così disse Giovanni mentre caricava i sacchi di grano.
Si produssero trentacinque stai. L’annata fu buona, aveva reso il venti.
Prima di andare a casa sua, passò con il carro carico in casa di Antonio Porcu e lì ne lasciò un sacco.
Pasqua Flore, la cugina, ricevendolo, lo ringraziò commossa. “Dio ti ripaghi in salute e fortuna. Grazie per questo e per tutto l’altro che hai sempre fatto per noi”.
L’indomani Giovanni, con Maria e Salvatore, rimasero tutta la giornata a Ghilarza. Al bestiame badarono Daniele e Giuseppe.
La notte, per vedere i fuochi d’artificio, venne tanta gente da molti paesi e tutti furono contenti dello spettacolo.



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